Milano, 11 novembre 2016 - 23:17

«Analogie tra me e Trump, ma io non sono la destra. Da Barack Obama mondo instabile»

Silvio Berlusconi: «Hillary Clinton ha pagato il suo essere un elemento di continuità con gli otto anni di Obama. Trump? Gli americani lo hanno scelto, lasciamolo lavorare. Lo stesso rifiuto della politica chiusa indurrà gli italiani a votare No al referendum»

(Imagoeconomica) (Imagoeconomica)
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Presidente Berlusconi, perché secondo lei negli Stati Uniti ha vinto Trump: è stato un voto contro l’establishment rappresentato dalla Clinton? Un giudizio negativo sulla presidenza Obama? Una reazione al processo di globalizzazione, indicato come causa dell’impoverimento degli americani?
«Sono convinto che Hillary Clinton abbia pagato il suo essere un elemento di continuità con gli otto anni di Obama e dell’establishment di Washington. Obama ha commesso molti errori, specie in politica internazionale. Dall’incoraggiamento delle cosiddette primavere arabe, all’inefficace contrasto all’integralismo islamico, fino alle controproducenti tensioni con la Russia. Ha indebolito la posizione dell’America e ha reso il mondo un luogo più instabile e pericoloso. Anche sul piano interno non credo che gli americani, soprattutto la classe media, abbiano avuto vantaggi da una politica tendenzialmente statalista».

Il suo amico George W. Bush ha fatto sapere di aver votato scheda bianca alle Presidenziali. Come giudica questa sua scelta?
«Capisco e rispetto le sue ragioni. Ma, conoscendolo, credo che — se servirà e gli sarà richiesto — si metterà ugualmente, con la generosità che gli è propria, a disposizione del suo Paese e del nuovo presidente».

Avrebbe votato come lui?
«Non mi sono pronunciato prima, non intendo farlo ora. E penso che Renzi abbia compiuto un grave errore a schierarsi apertamente a favore di un candidato. Al quale, peraltro, non ha portato fortuna».

Ritiene anche lei, come Bush con il suo voto, che i due candidati non fossero all’altezza dei protagonisti delle precedenti sfide?
«I presidenti si giudicano da quel che fanno. Donald Trump dimostrerà le sue capacità operando per il suo Paese. Questa discussione non ha molto senso. Dimostra solo un provinciale complesso di superiorità verso l’America che la politica italiana non ha titolo per rivendicare. Se non altro perché siamo un Paese nel quale dal 2011, a differenza degli Stati Uniti, il governo non è più scelto dai cittadini. Il nostro è un Paese che negli ultimi vent’anni ha subito cinque autentici, seppure incruenti, colpi di Stato. E che ha eliminato per via giudiziaria il più pericoloso competitor della sinistra».

È calzante il paragone che fanno di Trump con lei?
«Alcune analogie sono evidenti, anche se la mia storia di imprenditore è molto diversa da quella di Trump, che non ho mai avuto occasione di conoscere. È anche lui un imprenditore che a un certo punto della vita ha deciso di dedicare le sue capacità e le sue energie al suo Paese. Ed è stato votato da tutti gli americani stanchi di una politica vecchia, chiusa in se stessa, diventata incapace di ascoltare e capire. Una politica che ha commesso l’errore tipico delle sinistre di tutto il mondo, quello di pensare che il “politicamente corretto” sia il modo di stare vicino ai bisogni della gente. Senza comprendere che i veri deboli sono i cittadini vessati dallo Stato, dalle tasse, dalla burocrazia, dall’immigrazione incontrollata, dalla disoccupazione, dal pericolo terrorista. Questo in America, come in Italia e in Europa. Gli americani hanno scelto Trump, ora lasciamolo lavorare. I giudizi anticipati hanno poco senso».

La destra impersonata da Trump — che rivendica in economia una linea protezionista — è la stessa destra di cui lei da oltre venti anni si fa interprete in Italia?
«Intanto una questione terminologica, che non è affatto secondaria: io non interpreto “la destra”, rappresento un centro liberale e popolare, nel quale sono confluite le migliori tradizioni politiche del nostro Paese: da quella cattolica a quella del socialismo riformatore, da quella del liberalismo a quella della destra democratica e responsabile. Per quanto valgono queste definizioni politiche, e credo valgano sempre meno, il mio ruolo è stato e continuerà ad essere questo. Quanto alla linea economica di Trump, ci sono molte analogie ed alcune differenze fra il programma presentato dal presidente degli Stati Uniti e il nostro: è apprezzabile la politica fiscale annunciata, così come l’accento posto sul controllo dell’immigrazione e sulla legalità. Non sono invece condivisibili le scelte protezionistiche e le tentazioni isolazionistiche che ha espresso. Però la politica mi ha insegnato che i leader non si giudicano sui programmi, si giudicano sui comportamenti. Lo vedremo all’opera».

Considera Trump, invece della Clinton, il presidente ideale per ristabilire un rapporto di collaborazione con la Russia di Putin?
«Trump ha compreso una cosa fondamentale: la Federazione Russa dev’essere considerata un Paese dell’Occidente a pieno titolo. Possono esistere singoli punti di dissenso, ma vanno risolti in un’ottica di collaborazione e amicizia. Abbiamo bisogno della Russia per affrontare — insieme — i problemi drammatici sullo scacchiere internazionale: dall’estremismo islamico all’ondata migratoria. Il presidente Putin finora si è dimostrato capace di affrontare le emergenze del nostro tempo prima e meglio di altri leader internazionali».

I rintocchi di un «tempo nuovo» si erano avvertiti in Europa, soprattutto con la Brexit: pensa continueranno a sentirsi?
«Sì. E questo può essere un bene o un male, a seconda della capacità delle classi dirigenti europee di cogliere il fenomeno e trarne le conseguenze, oppure di chiudersi in se stesse. La risposta può essere una nuova offerta politica liberale, contro lo statalismo, contro l’oppressione burocratica, contro l’oppressione fiscale. O può essere il populismo deteriore, che non dà soluzioni ma si limita a sfruttare le angosce per un disegno di potere. Siamo a un bivio che può portare a una nuova e più alta stagione della democrazia, oppure a un periodo molto buio, dalle conseguenze imprevedibili».

L’anno prossimo ci sono le elezioni in Francia, dove Marine Le Pen punta a conquistare l’Eliseo: è il vento populista che lei teme in Italia?
«Le analogie fra i diversi Paesi rischiano di essere forzate. Ma è innegabile che alcuni tratti comuni esistano. Certo, in Italia potrebbe esserci questo rischio. Soprattutto se la riforma costituzionale e la legge elettorale volute da Renzi venissero confermate: con quelle regole, una forza politica rappresentante di un terzo dei votanti, potrebbe prendere tutti i poteri. Perciò da un lato è importante che vinca il No al referendum, dall’altra è importante costruire un’offerta politica di qualità basata sui valori liberali, cattolici e riformatori, innovativa nei protagonisti e nei contenuti».

Sul referendum, in queste ore, si confrontano due scuole di pensiero: c’è chi sostiene che il voto americano alimenterà il fronte del No e chi ritiene che darà una spinta al fronte del Sì. Qual è la sua opinione?
«Gli elettori non si fanno influenzare da avvenimenti esterni né da prese di posizioni di Stati esteri o dei cosiddetti poteri forti. Io credo che lo stesso spirito di rifiuto di una politica chiusa in se stessa che ha spinto gli americani a votare per Trump, indurrà gli italiani a votare No a un referendum che limita la loro libertà di scelta. Con il rischio, stante l’attuale legge elettorale, di una deriva autoritaria».

Nel frattempo Salvini usa l’effetto Trump per affermare il suo primato nel centrodestra, e chiama a raccolta pezzi di Forza Italia che sembrano aderire al suo progetto.
«Non penso che Salvini creda davvero che oggi il problema che interessa gli italiani, o anche solo i nostri elettori, sia il nome del leader. Prima bisognerà verificare e capire tante cose: come andrà il referendum e con quale legge elettorale si andrà a votare. È ingenuo immaginare di crescere politicamente soltanto esasperando i toni o alimentando le polemiche. Dopo il referendum, con la vittoria del No, ci dovremo porre un solo problema: quello di far andare al più presto il Paese alle urne, con un sistema elettorale condiviso che possa funzionare davvero».

Se vincesse il No e Renzi dovesse dimettersi, sarebbe necessario un esecutivo per modificare la legge elettorale. Quale tipo di governo eventualmente chiedereste al capo dello Stato durante le consultazioni? E Forza Italia sosterrebbe questo gabinetto, magari anche solo con un appoggio esterno?
«Ora pensiamo a far vincere il No al referendum per il bene dell’Italia e degli italiani. Sarà poi il presidente della Repubblica a decidere la formula di governo più adeguata. E noi ci regoleremo di conseguenza, mettendo in campo — ancora una volta — il nostro senso dello Stato e il nostro senso di responsabilità».

Sulla legge elettorale, lei chiede di accantonare il doppio turno dell’Italicum e di varare un sistema proporzionale a turno unico, rafforzato con un premio di maggioranza. Ma in Italia ormai ci sono tre poli, dunque sarebbe altissima la probabilità — dopo il voto — che nessuno arrivi a ottenere la maggioranza dei seggi. In quel caso, forze di due poli diversi dovrebbero allearsi in Parlamento: in quel contesto, sarebbe pronto a collaborare per garantire un governo al Paese?
«Chiedo una legge elettorale proporzionale a turno unico per una ragione che mi pare evidente: la realtà politica italiana è cambiata. Un tempo esistevano due poli, ora ne esistono tre. Vent’anni fa votava l’80% degli italiani, e allora un sistema maggioritario aiutava il polo vincitore ad avere numeri sicuri per governare. Ma il vincitore rappresentava la maggioranza degli elettori, o ci andava molto vicino. Oggi invece ognuno dei tre poli rappresenta circa un terzo dei votanti. E i votanti sono la metà degli aventi diritto al voto. Quindi un sistema come l’Italicum — nel quale chi vince piglia tutto — avrebbe come effetto che un partito o uno schieramento con il 15-20% del consenso effettivo potrebbe tenere in mano tutte le leve di governo del Paese. Questo è il vero problema della legge elettorale. Noi dobbiamo tornate ad essere una vera democrazia. E, lo ripeto, ci è necessaria — al di là delle tecnicalità — una legge che, impedendo finalmente ogni possibilità di brogli, garantisca la corrispondenza fra la maggioranza in Parlamento e la vera maggioranza degli italiani. In questo caso, noi ci candideremo a vincere. Saranno altri a doversi porre il problema di collaborare con noi
».

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